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Impegno sociale marchi moda di lusso: da Dior a Gucci, ecco cosa succede

Impegno sociale marchi moda di lusso: da Dior a Gucci, ecco cosa succede

Impegno sociale marchi moda di lusso: tra benefattori, filantropi e business

Stabilire dove inizi l’uno e finisca l’altro mette proprio male.

Annoiati e distratti da un’offerta smisurata di beni materiali gli Occidentali sentono di doversi dare uno scopo. Uno scopo che, ovviamente, non può prescindere dalle scelte d’acquisto, soprattutto, se per questo genere di consumi cominciano a ballare più di 500 Euro. Diviene così un’urgenza per i marchi di lusso smarcarsi con decisione da una proposta a buon mercato, pena il soccombere definitivo.

Davanti a una galoppante paralisi del desiderio e di fronte al sollevarsi di una sempre più diffusa responsabilità sociale e ambientale, il mondo della moda lussuosa sta spostando l’accento da una strategia più “becera” e materialista a una filosofia più “spirituale”. Così, invocando “l’assoluzione divina e la redenzione dai peccati”, i grandi conglomerati del lusso sono pronti a “scendere in piazza” per prendere attivamente parte alle questioni umanitarie e politiche.

Tra utopie e distopie e tra il dire e il fare non c’è il mare, ma il mondo della moda

Vorrei un mondo senza fame nel mondo“. #Celho ✓

Vorrei un America senza pistole“. #Celho ✓

Vorrei un mondo con la parità di genere”. #Celho ✓

Vorrei un mondo senza pellicce vere”. #Celho ✓

L’ultima notizia è che Gucci devolverà 500.000 dollari per la marcia anti-pistola “March For Our Lives” che avrà luogo il prossimo 24 marzo a Washington.

E così abbiamo la Chiuri che continua a cucire capitoli intorno al “suo” teorema femminista, Chanel che ogni tanto prova a sintonizzarsi sul medesimo canale( perché”tira”), Tory Burch che è l’emblema della donna imprenditrice filantropa e poi Demna Gvasalia che con l’ultima sfilata Balenciaga si schiera contro la fame nel mondo.

E siamo solo all’inizio

Il fatto che i pezzi di lusso siano soggetti ad essere rimpiazzati con la stessa velocità di un capo Zara, è, infatti, una verità adamantina riconosciuta da tutti.

Il prezzo, l’eccellenza manifatturiera e la storia, poi, non garantiscono più l’acquisto.

In un mondo di imitazioni e consumi rapidi, il fattore etico-sociale sembra così essere rimasta l’ultima frontiera esplorabile dai marchi di lusso.

Believe in me: credimi, abbi fiducia

I punti si guadagnano direttamente sul campo di gioco, ovvero, “sporcandosi le mani” di “noie necessarie”. Quelle che riguardano la gente comune, quelle che ACCOMUNANO la gente comune.

Il marketing dell’attivismo: quello che non farà mai la politica, lo fa la moda

Si inizia la strategia individuando una mancanza: l‘inefficiente e inadempiente sistema politico mondiale, la perdita di stima e fiducia nell’establishment.

Individuare una causa particolarmente sentita e “lottare” per questa è l’unico modo per smuovere realmente le masse.

Condivisione, inclusione, aggregazione e comunanza sono, infatti, tutti elementi di cui la società attuale è sentitamente carente, pertanto, di straordinaria risonanza e coinvolgimento.

Il lusso non è più fatto di vestiti, ma di fattore umano, di valori, di cambiamento, di rivoluzione,  di testimonianza, di memoria.

Alle nuove generazioni dobbiamo fornire una moda che sia strumento di espressione della propria individualità e dei propri valori. E se c’è un valore che viene richiesto alla moda è proprio il fattore umano, quell’artigianalità che permette a un bene di lusso di durare oltre il tempo, di essere tramandato, di diventare significato per chi lo indossa oggi e per chi lo indosserà domani. Ecco, col mio percorso da Dior io sto proprio inseguendo questo valore”.*

http://d.repubblica.it/moda/2018/02/27/news/christian_dior_sfilata_autunno_inverno_2018_2019_parigi-3882902/  

immagine copertina via pinterest.com




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ph. Ilaria Primerano

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7 Comments

  1. bellissimo il colore di questo tailleur!!
    baci

    http://www.unconventionalsecrets.com/

  2. #professionaloutfit
    #Stunninglooks
    #Niceheels

  3. TORNA ALLA RICERCA

    INDUSTRIA-FINANZA
    Cambiamo vestiti troppo spesso? Prime nubi sulla moda «low cost»
    di Giulia Crivelli

    Amancio Ortega. In quanti conoscono questo nome? Non in tantissimi, al di fuori del mondo della moda e della finanza. Ma forse dovremmo tutti sapere chi è, visto che quasi certamente, negli ultimi dieci anni e anche più, ci ha venduto qualcosa. Ha 81 anni, è uno dei dieci uomini più ricchi al mondo, con un patrimonio stimato da Forbes in circa 70 miliardi di dollari. È spagnolo e nel suo Paese è trattato come una celebrità, anche se nella sua vita avrà rilasciato giusto una manciata di interviste e non appare mai in tv o, men che meno, partecipa a eventi mondani. Ortega è il fondatore del gruppo Inditex, conosciuto in Italia soprattutto per i negozi a insegna Zara, ma anche per altri marchi, come Oysho (abbigliamento intimo, da casa, per il tempo libero), Massimo Dutti, Bershka, Zara Home, solo per citarne alcuni. Dopo anni di crescite a due cifre in ogni mercato, il 2018 si è aperto con più di una nube all’orizzonte: mercoledì Inditex, quotata alla borsa di Madrid, ha annunciato i risultati 2017.

    Apparentemente invidiabili: nell’anno fiscale che si è chiuso a gennaio, l’utile netto è salito del 7% a 3,37 miliardi di euro. Meglio ancora ha fatto il fatturato: +9% a 25,3 miliardi di euro, in aumento del 9 per cento. I giornali spagnoli e non solo hanno riportato la notizia con una certa enfasi: “Inditex batte ogni record in un anno difficile grazie all’e-commerce”, ha scritto El Pais in prima pagina. “Zara, polmone economico della Galizia”, ha titolato Le Monde, sempre in copertina. Potrebbero allora sembrare quasi uccelli del malaugurio gli analisti, a partire da quelli di Bloomberg, che non sono ottimisti sul futuro di Inditex.

    Le ragioni però ci sono. Due in particolare. La prima è la forza dell’euro: circa il 60% della produzione dei brand in portafoglio a Inditex è fatta in Spagna, sostenendo costi nella valuta europea, ma vendendo in tutto il mondo in valuta locale. Al contrario dell’altro colosso del fast fashion, H&M, Inditex produce in Asia solo il 30% del totale. Gli svedesi, stima Bloomberg, arrivano all’80 per cento. Le valute però, si sa, sono bizzose e non è detto che il cambio euro-dollaro non torni ai livelli degli scorsi anni. Specie in un mondo che ogni giorno o quasi vede nascere o acuirsi una crisi geopolitica che poi diventa economica o finanziaria. E comunque H&M non sembra beneficiare della delocalizzazione estrema: giovedì il titolo, quotato a Stoccolma, ha toccato il minimo da mesi e negli ultimi sei mesi il calo è stato del 40 per cento. Al contrario di Inditex, il colosso svedese ha visto il fatturato e gli utili calare per due trimestri di seguito.

    La spiegazione data da H&M? I maxi e prolungati saldi per liberarsi dei magazzini invernali, troppo pieni per via dell’inverno caldo che molti Paesi europei hanno vissuto. Una decisione che ha fatto scendere il valore delle vendite e ha compresso i margini. Spiegazioni che non sono bastate agli analisti: H&M ha accumulato molti ritardi nelle vendite online (che invece da Inditex hanno trainato i ricavi, crescendo in un anno del 40%) e soffre la concorrenza di e-tailer come Zalando e Amazon.

    Ma torniamo a Inditex: se l’e-commerce cresce e traina ricavi e utili perché molti analisti suggeriscono cautela, pur lodando il modello di business di Inditex e del fast fashion in generale? Il problema è proprio lì: Ortega con Zara e H&M con il marchio omonimo (in portafoglio ci sono anche &Other Stories e Cos, però, nati per soddisfare target diversi da quello iniziale) hanno davvero rivoluzionato il fashion system globale. Dal punto di vista produttivo, distributivo e, forse ancora più importante, da quello sociale e culturale.

    Qualcuno si è scomodato a parlare di “democratizzazione” della moda: grazie ai prezzi bassi o medio-bassi, uniti però a collezioni sempre nuove e legate a trend del momento, presi in prestito (o copiati, dicono i detrattori, dalle sfilate dei grandi marchi) le due catene hanno reso possibile praticamente a tutti un ricambio continuo del guardaroba. Non solo: poiché in molti casi il rapporto qualità-prezzo è davvero ottimo e le materie prima usate sono di buon livello (cotone, lana, persino cashmere), è nato il fenomeno del “mix and match”. Anche chi può permettersi di comprare da Armani o Zegna, passando per Prada, non disdegna lo shopping da Zara e Massimo Dutti o H&M e Cos. E mischia capi e accessori di prezzo medio e alto con altri pagati assai meno. È l’aspetto ludico della moda, che coinvolge tutte le fasce di consumatori.

    Ma quanti capi può contenere un armadio? Quante giacche o borse o scarpe o calze o pigiami possiamo utilizzare in un mese? Dopo quanto ci stufiamo di ciò che abbiamo comprato “solo” perché costava poco o ci sembrava fresco e divertente? Una volta si faceva shopping soprattutto all’inizio delle stagioni, quando le vetrine e l’assortimento dei negozi venivano completamente cambiati, salvo poi subire poche variazioni per i mesi successivi. Oggi le vetrine cambiano quasi tutti i giorni, in negozio arrivano nuovi capi più o meno allo stesso ritmo. E noi compriamo. E riempiamo i nostri armadi. Salvo scoprire che l’industria tessile è la seconda più inquinante al mondo dopo quella dell’energia. E che nei Paesi più poveri del pianeta non ci sono solo discariche alte come montagne di cellulari, ma anche di vestiti.

    Tutti gli studi indicano che i Millennials, i nati dopo il 1980, mettono tra le priorità la sostenibilità. La chiedono a se stessi e alle aziende e istituzioni. Questa è la nube sul futuro del fast fashion e che invece potrebbe favorire i marchi di alta gamma, che puntano sulla durata dei loro prodotti e sul fascino di uno stile slegato dai trend. Costano di più ma non passano mai di moda. Il lusso invece è lento, ripeteva spesso Yves Carcelle, artefice della consacrazione di Louis Vuitton in primo brand al mondo. Può darsi che il ritorno al piacere dell’attesa, la voglia di fare cose che i computer non possono fare, come scrivere a mano, fare un’orecchia alla pagina di un libro, cucinare con ingredienti di stagione, abbiano la meglio. Sempre a patto che questo “movimento slow” e vagamente anti-tecnologico non sia solo una moda.

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    TAG: Giulia Crivelli, Amancio Ortega, Zara Home, Massimo Dutti, Spagna, Millennials, San Sebastian, Borsa di Madrid, Yves Carcelle, Louis Vuitton

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    1. Ho letto con molto interesse. A mio parere già si sta muovendo qualcosa intorno alla qualità per un consumo più sostenibile ecco perché marchi di nicchia medio alti cominciano a pesare nell’economia. Detto ciò finché Ig detterà le regole il consumo sarà sempre poco ponderato.

  4. Da “usa&getta” a “fotografa&svapora”… Seguo il tuo blog con crescente interesse, grazie alle tue analisi corredate da belle foto, posso lanciare uno sguardo oltre i miei orizzonti. Non compro da Zara,prossimamente aprirà a 20km da casa mia e andrò a dare un’occhiata, tanto per farmi un’idea… Non compro su internet perché ho bisogno di vedere toccare provare il capo e per acquistare devo “innamorarmi” 🙂 e poi mi prendo cura dell’oggetto per molto tempo. Mi piacciono le cose originali, artigianali, particolari, se sono uniche tanto meglio… Se mi posso permettere di comprarle a buon prezzo sono felice, altrimenti… pazienza. Sono appassionata di storia del costume e della moda, vedendo le foto di certe creazioni non posso fare a meno di esplodere in fragorose risate… Ma il senso del ridicolo no, eh!? :-))))) Ciao da Elena

    1. Grazie infinite Elena, per fortuna c’è ancora qualcuno che “perde del tempo” a leggere come te.
      Che dire, i negozi fisici non spariranno mai, nonostante l’avanzamento del digitale, da ieri anche in Italia, si può comprare da Instagram.
      Detto questo, il senso della bellezza non appartiene più al contemporaneo, per vari motivi, primo tra tutti la trascurabilità del buon gusto in favore della popolarità e del fattore virale dato dalla stravaganza.

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